Provo, tanto per cambiare, questo mezzo di comunicazione. Anche se comprendo come possa risultare estremamente imbarazzante scrivere quanto segue, proverò a farlo comunque. Non riesco a parlarti direttamente, non riesco a mettere una parola accanto all’altra per esprimere anche la più stupida banalità. Mi perdo in una specie di strana contemplazione della tua divinità e di acuta consapevolezza della mia inettitudine.
Ultimamente, proprio tale coscienza di non essere in grado di vivere una vita completa, accanto all’insicurezza per il mio futuro lavorativo e ai cambiamenti inevitabili nella routine domestica, (accanto: non ‘unita’ oppure ‘insieme’, perché quantomeno riesco a mantenere questa particolare schizofrenia funzionale che mi fa reagire in modo diverso in contesti differenti), mi hanno portato a contemplare con compassione l’Abisso.
In condizioni normali tra me e l’Abisso c’è un filtro razionale, un distacco clinico e cinico, che mi permette di non soffrire (troppo).
Mi ero ripromesso, scrivendo queste insensate righe, di non comporre frasi lunghe farcite di incisi e di non ricorrere a simboli. Poche parole ed eccomi a non aver rispettato le regole.
Mi spiego: l’espressione “contemplare l’Abisso” solitamente viene associata a pulsioni suicide, ma io ho preso ad utilizzarla come sinonimo di arrendersi al Non Senso, quel particolare insieme di conseguenze ai dati di fatto che si determinano senza particolare ragione (casualità storiche, sociali, genetiche), ma che al contempo si configurano come necessarie e perciò inevitabili. Non so quanto questa spiegazione sia chiara. Uno si comincia a chiedere se ‘contemplare con compassione l’abisso’ non esprimesse già pienamente un significato, o anche se solo un meta-significato non fosse già auto-sufficiente…
Un esempio: ho visto un servizio tv su ‘L’amico di famiglia’ di Sorrentino. L’attore protagonista ha detto una cosa simile ad un certo punto: “Dio, bontà sua, mi ha fatto così: brutto. Io non mi vedo così: so di non essere bello ma non mi vedo particolarmente brutto. Io ed il mio personaggio nasciamo sconfitti non per colpa nostra.” Togli Dio e il concetto di colpa ed in nuce hai una cosa che avrei potuto dire io pari pari.
Perché poi ti scriva queste cose, mi viene in mente adesso, e ti chiedo di perdonare questo mio delirio, (ed avevo promesso di limitare gli incisi), potrebbe sembrare che sia per ottenere risposte del tipo: ma no, non fare così, esiste anche per te la possibilità di essere felice, da qualche parte, in qualche luogo, ma non qui, non adesso, domani, attendi, domani. La promessa del Paradiso. La grande consolazione. L’illusione.
No. Non c’è bisogno di inutilità del genere, e se ti fa piacere saperlo anche il solo scrivere queste cose che sto scrivendo, (scrissi), ha una valenza terapeutica per l’anima. I Sentimenti si sfogano negli inutili barocchismi marinisti e lasciano che ogni tanto sia la Ragione a illuminare il mondo.
Non lo so, sono in pausa pranzo e ho perso il punto. Ieri è nato il figlio di mia sorella e non ho cenato. Ed è meglio che vada a mangiare qualcosina.
Magari il punto è tutto qui: volevo solo sperimentare questo tipo di comunicazione.
martedì 28 agosto 2007
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