Il giorno sta passando lentamente, un minuto si accatasta sull’altro, materia del fuoco, il tempo che non brucia, ma scivola freddo, la corrente placida di un fiume che si allarga per diventare lago, una nebbia umida che accarezza le rive circondate di salici, un unicorno morente, il manto bianco screziato di rosso, ed un cacciatore attonito. Tante volte mi è venuta voglia di scrivere, e qualche volta l’ho fatto. Ma quegli sterili abbozzi, che sorridevano maligni o piangevano compiaciuti, non hanno raggiunto quella soglia che avrebbe giustificato il loro completamento e la loro finalizzazione. Sono rimasti lì, note impotenti di inutili momenti di egotismo. Puoi non leggere quanto segue, o non aver letto quanto precede, non importa, non mi offendo, insensati barocchismi. Il mio problema attuale è che, pian piano, sto perdendo il controllo. Ci sono a volte momenti in cui il dolore che provoca il demone aggrappato al mio cuore si rende manifesto. Non riesco a ricordare quello che mi si dice, inizio a balbettare o non riesco a parlare. Sono solo momenti, ma soprattutto la balbuzie e l’afasia si presentano sempre più spesso. E’ il trionfo della confusione mentale. E’ l’inizio o l’indizio della follia. E’ quello di cui ho più paura: la coscienza della pazzia. Perché ho spesso pensato che perdere il controllo di sé senza rendersene conto, scivolare nell’antro pieno di specchi dell’alterazione mentale, non fosse un male di cui ci si potesse in fondo lamentare. Ovviamente sarebbe un inferno per chi ci sta intorno, ma dal punto di vista egoistico ed individuale essere un Napoleone felice è meglio che essere un tipo che ha le aspirazioni di Napoleone, lo stesso malore di stomaco, una passione per donne, marmi e cavalli, ma al tempo stesso sa di non essere Napoleone e non avere assolutamente le forze o i mezzi per conquistare l’Europa e per imprigionare il Papa nel Priamar. Non è la pazzia a fare paura, ma, appunto la coscienza di essa.
Mi sembra sempre più difficile indossare la maschera di allegra spensieratezza che alcuni mi vedono così bene addosso. Invece mi importa, invece soffro, invece accuso i colpi, e situazioni anche lontane da me mi fanno stare male. E’ la barriera che mi ha separato per così tanto tempo dal reale che si è dissolta, e quello che avevo intuito mentre stavo al di qua (quelle crisi anche violente, ed una violentissima) lo trovo pari pari di là. La mancanza di Senso. Basta: troppe chiacchere, troppi concetti. Un ultimo.
C’è una parola di particolare fascino espressivo nel vocabolario inglese: longing. Si può tradurre come nostalgia, ma non rende del tutto il significato. E’ una strana sensazione, a dire il vero. L’ateo CS Lewis provava un senso di longing che non comprendeva fino a che non ha realizzato che questo era indirizzato verso la dimora celeste, il Cielo. Se provo quella determinata sensazione, longing, si disse, allora Dio esiste, perché io tendo ad esso e non potrei tendere a qualcosa che non esiste… Certo, in questo caso potrebbe tradursi anche nostalgia, oppure no? All’idea di casa o patria o famiglia (home) si associa spesso anche l’appartenenza (belonging to). Di nuovo quella radice long. Long è anche lungo, lungo come un viaggio, long journey, come un drink, long dring. E quel suono liquido ed al contempo pieno… Ma non è questo il punto. Longing. –nostalgia come tensione verso un qualcosa che non si ha, ma una tensione non rabbiosa bensì malinconica ed impotente. Tensione per un qualcosa che esiste ma che è ogni volta dietro l’angolo, è sempre oltre la linea dell’orizzonte, meta alla fine della via.
Boh, non importa. Comunque.
martedì 28 agosto 2007
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