lunedì 12 novembre 2007
Moonday
Il freddo accarezza la ruvida superficie delle mie ossa, gli ultimi giorni della scorsa settimana un tormento. Ho chiesto quanto ho scritto non avrei avuto il coraggio di chiedere. La risposta, attesa, è stata negativa. La reazione è stata, attesa, una riproposizione della domanda. In un momento particolare, di involuta evoluzione, ho bisogno di almeno una porta chiusa e lucchettata, anche se rimarrò battendo, al di qua della soglia, sulle tavole di legno grezzo, levigate appena dalla vernice a smalto, piangente. Il fiume che, più in là, scivola gelido sotto la crosta del ghiaccio, scorre invisibile nascosto dalla neve che ricopre il terreno soffice del sottobosco, pineta incantata, larici ed abeti come cupole e minareti. Mi ricordo di un sogno in cui tutto si risolveva, anche se a distanza di anni. Le visioni allora erano postindustriali. Palazzi di cemento armato e terrapieni d'asfalto. Un altro sogno, un altroterrapieno, parcheggio deserto d'asfalto rovente senz'ombra. Creatura d'incubo, perfettamente simmetrico, con i suoi shorts e gli stivali da padre pellegrino, la cannottiera ed i capelli unti, neri, la fascia da tennista. E gli occhi identici e maligni. L'aveva portata via con se, con anoressica fluidità. Malgrado gli appelli, lei consenziente. Nessun sogno oggi, solo segni del reale, simboli ed astrazioni che in un divenire logico mi elidono.
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